A cura della psicologa Dott.ssa Antonella Sagone
Quando un bambino piange, suscita nelle persone intorno a
lui sentimenti intensi. L’istinto è di correre subito e prenderlo in braccio,
consolarlo, fare qualsiasi cosa perché smetta.
Ma ecco che spesso i genitori si sentono dire, o leggono,
che questo comportamento sarebbe sbagliato, e anzi creerebbe gravi danni
psicologici al bambino. Secondo queste teorie, se il bambino piange e viene
accontentato, lo si incoraggia a piangere ancora perché si insegna che il
pianto “funziona” ed è un mezzo per ottenere ciò che si vuole. Insomma secondo
tale ipotesi, piangere sarebbe un comportamento strategico messo in atto dal
bambino allo scopo di ottenere il controllo degli adulti e far fare loro ciò
che lui vuole…
Ma… un momento, fermi tutti. Siamo proprio sicuri che un
neonato di pochi mesi, o un bambino di pochi anni, siano così potenti? un
adulto può sopravvivere senza bambini; un bambino non può sopravvivere senza
adulti amorevoli che si prendono cura di lui. Non ha l’abilità per fare da sé,
per procurarsi il cibo, nutrirsi, curarsi se sta male, assicurarsi un riparo.
Non può nemmeno prendersi emotivamente cura di se stesso, consolarsi da solo o
mantenere il controllo delle proprie emozioni, che sono intense e travolgenti. Un
bambino non conosce il mondo, e molto di ciò che succede intorno a lui gli è
incomprensibile senza un adulto che gli spieghi le cose.
E allora, chi controlla chi? Ed è davvero una questione di
controllo, o stiamo solamente trasferendo su un bambino piccolo e fragile i
modi di ragionare e di agire che purtroppo sono prevalenti nella nostra triste
società egocentrica?
Proviamo a vedere le cose da un punto di vista differente.
Diamo per scontato che il bambino non ha alcun piano o strategia, non agisce
con lo scopo di aumentare il suo potere sugli altri, anzi si sente spesso
impotente e smarrito, specie quando piange!
Per quanto riguarda il pianto, infatti, bisogna considerare
che questo non è un comportamento a sé, ma il segnale di un disagio e di un
bisogno che va compreso, una richiesta di aiuto rivolta dal bambino, che non sa
spiegarsi, ai suoi genitori.
In quanto segnale, il pianto è un alleato dei genitori, perché
li aiuta a capire quando c’è qualcosa che non va e a intervenire prontamente in
soccorso del loro bimbo in difficoltà.
Rispondere prontamente al pianto insegnerà al bambino che
piangere è un sistema che funziona? In un certo senso la risposta è sì: il
pianto infatti è un sistema comunicativo molto efficiente, una sirena
d’allarme, e quindi se funziona questo è un successo evolutivo, che ha permesso
alla nostra specie di sopravvivere e ai nostri cuccioli di restare vivi! Ma in
un altro senso, rispondere al pianto non “insegna” nulla al bambino che già lui
non “sappia”. Infatti piangere non è in’invenzione del bambino ma una reazione
istintiva, così come per il genitore è istintivo accorrere; e quando ciò
funziona, tutto va secondo i piani previsti dalla natura. Piuttosto è il NON
rispondere al pianto che insegna qualcosa al bambino: a non fidarsi della sua
capacità di segnalare i bisogni, a non credere più nel ruolo salvifico dei
genitori, a rassegnarsi. Questo, quando avviene, non è un successo, né
dell’evoluzione, né dell’educazione.
Non si vizia un bambino dando ascolto ai suoi bisogni e
consolandolo quando, ad esempio, piange di notte, prendendolo in braccio,
abbracciandolo o dandogli il seno, il ciuccio o il biberon. Coccolarlo,
prenderlo in braccio, provare magari ad allattarlo, fargli un bagno caldo,
cantargli, cullarlo, è semplicemente la risposta appropriata al momento giusto.
E’ molto importante che l’adulto sia con il bambino quando sta male o è
agitato, così come quando sta bene. Lo aiuta a superare i momenti “no” e a
trovare più rapidamente un suo equilibrio, e a ripristinare più in fretta la
serenità in famiglia.